Ancora fino a pochi anni fa, i criminali nascondevano i propri traffici illeciti ed i conseguenti guadagni nei paradisi fiscali vicini a casa – quelli in cui gli avvocati ed i banchieri parlavano la loro stessa lingua: Zurigo, Amsterdam, Vaduz, Montecarlo, Lussemburgo, Gibilterra, Lugano, Panama[1]. Poi è nato l’Egmont Group[2], e con esso tutta una serie di organizzazioni internazionali che lottano contro la corruzione (FATF[3]), e i governi sono stati costretti (contro voglia) a combattere le giurisdizioni offshore – ovvero quei luoghi in cui si fanno affari nel totale segreto, persino di fronte alle richieste della magistratura e del Fondo Monetario Internazionale[4].
Ogni paradiso fiscale ha creato un secondo paradiso fiscale, nel quale proteggere la parte più invereconda del suo business: Cipro, Malta, Macao, Montevideo, Andorra, le Isole Cayman, le Isole Vergini, la Liberia, et cetera[5]. Finché anche queste aree sono state aggredite dalla giustizia, e ci si è dovuti allontanare di più. È in quel momento che Abu Dhabi e Dubai, i principali tra i sette Emirati Arabi Uniti, sono divenuti la punta dell’iceberg del malaffare internazionale[6] – il luogo in cui il potere politico, finanziario, industriale, commerciale e militare, concentrato nelle mani di un’unica famiglia, se ne infischia di liste nere internazionali, di embarghi, di sanzioni, di minacce, perché tiene tutti sotto scacco con il petrolio e le sue alleanze militari nello scacchiere più delicato del mondo: il Golfo Persico.